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ACCATTONE cronache romane - 05/04
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A Pa'

Giuseppe Scadurra

Appena arrivati alla stazione Termini si spaventarono subito per il traffico e per i palazzoni della capitale, che sembravano troppo grandi per essere fatti per gli uomini. Da li' partiva il T2, il pullman, che portava a Cinecitta'. Qualcuno di loro si aspettava una villa o un piccolo appartamento, i piu' realisti una capanna, ma arredata. Il parco, invece, era pieno di discariche, e c'era il fumo, quello che usciva dalle stufe a legno, utili per cucinare e riscaldare l'acqua per lavarsi. C'erano pure i pozzi neri in mezzo al terreno, "per fare i bisogni", che implodevano verso il centro della terra. Le baracche erano tutte numerate, in ordine, come le case sulle strade di Roma, e ognuno si prese quella che gli spettava. Chi aveva pagato di piu' si accomodo' sotto l'arco dell'Acquedotto piu' grande, gli abruzzesi piu' poveri, invece, si ammucchiarono negli archi piu' piccoli, stretti stretti. Negli anni '30 Roma era tutto tranne che una metropoli. Fuori dalle mura nessuno sapeva cosa avvenisse, o almeno, tutti facevano finta di ignorarlo. Eppure la citta' mutava forma di giorno in giorno.

Nel 1925 il fascismo aveva iniziato a sventrare il centro storico della capitale deportando i residenti delle zone rase al suolo, via Cavour, Sant'Apollinare, Sant'Andrea della Valle, il quartiere Borgo, nelle borgate di nuova costruzione. E accanto a queste nascevano nuovi insediamenti, ovvero i borghetti, costituiti da baracche in lamiera dove andavano a vivere gli immigrati provenienti dalle regioni meridionali, per lo piu' uomini che venivano a Roma in cerca di lavoro, soprattutto nel campo dell'edilizia, l'unico settore che funzionava nella capitale. Le borgate, questi pezzi di territorio urbano privi dei requisiti essenziali, piccoli borghi che non erano ne' propriamente citta' ne' propriamente campagna, resistettero fino alla fine degli anni '70. Nel 1968, in citta', si potevano contare ancora 57 borghetti, e ben 62.351 baraccati. Ma allora, a quarant'anni di distanza, i cittadini della capitale non erano gia' piu' in grado di capire cosa era diventata Roma e la vita delle persone che vi abitavano. La nuova metropoli era nata, e oramai, come scrivera' qualcuno, ignoravano Roma i romani e ignoravano quindi se stessi come gruppo sociale.
Nel '500, per risolvere il problema di approvvigionamento idrico di vaste zone di Roma, Sisto V, al secolo Felice Peretti, il 24 aprile 1585 riattivo' l'acquedotto costruito originariamente nel 226 d.C. Fu cosi' che nacque l'acquedotto Felice, sotto i cui archi, agli inizi degli anni '60, si accamparono seicentocinquanta famiglie, fino al 1974, quando il Comune di Roma assegno' loro le case. L'agglomerato iniziava a nord di Porta Furba, dove le baracche si congiungevano sotto gli archi con quelle del Mandrione, fino ad arrivare all'altezza di Cinecitta'. La maggior parte di loro proveniva dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia, dal Molise, dalla Sardegna e dal piccolo paese della provincia aquilana di Villavallelonga. La cosa che stupi' di piu' i nuovi abitanti della citta' furono i froci: come i marziani questi erano soggetti di leggende e storie di fantascienza metropolitane. Nelle periferie romane, del resto, non c'erano gli omosessuali, i froci erano gli omosessuali delle borgate. Il nome stesso non indicava una differenza, piuttosto un marchio d'infamia della specie. Sotto gli archi questi non formavano mai gruppo, e si aggiravano solitari anche dietro i palazzi, spaventati e sempre pronti a scappare. La sera, alla luce dei lampioni, i ragazzi dell'acquedotto li incontravano agli angoli delle strade, loro ti seguivano per un po' se ti fermavi, poi ti lasciavano stare e ricominciavano ad aspettare qualcun altro. Gli abitanti di Villavallelonga, per esempio, non ne avevano mai visto uno prima, nemmeno in televisione, anche se dietro gli edifici, quelli dei borghesi, tutti facevano il nome di un intellettuale che voleva conoscere la gente della borgata, Pier Paolo Pasolini. Le baracche degli omosessuali, accanto quelle dei travestiti, erano le uniche separate, vicino ai ruderi dell'acquedotto. Qui, sotto i vecchi sassi dell'impero, i ragazzi delle baracche si nascondevano per prostituirsi. Con i soldi, poi, andavano al cinema, seguendo la moda piu' in voga nella capitale.
Appena arrivati, le mamme andarono a iscrivere i piu' giovani nelle scuole del quartiere. Questi, soprattutto i piu' timidi, facevano il giro piu' lungo per arrivare nell'edificio scolastico. Per i ragazzi dell'acquedotto, in effetti, era vitale non far capire ai compagni di classe che si era "quelli delle baracche". I presidi, infatti, li selezionavano fin dal primo giorno di scuola. Quelli dei palazzi nelle classi normali, gli altri, "quelli delle baracche", appunto, in quelle differenziali. Qui ci venivano mandati a insegnare i professori peggiori, che passavano il tempo a leggere "Il Messaggero", con le gambe sul tavolo. Qualcuno di Villavallelonga provava anche a fare domande, ma la risposta, dalla cattedra, era piu' o meno sempre la stessa: "A zappare devi andare, vicino ai sassi, co' li froci!".

Don Roberto Sardelli abita al terzo piano di un appartamento in via Montecuccoli. Via Montecuccoli e' una traversa di piazzale Prenestino, poco dopo porta Maggiore e prima di largo Preneste. Prima di entrare nella strada, sulla sinistra, c'e' un piccolo altare incassato al muro con l'immagine della madonna e la scritta: "In ricordo della salvezza di Roma, 4 giugno 1944". All'angolo c'e' un bar-tabacchi con una cassetta per la posta pubblica, e un cartello, altezza occhi, con scritto: "In via Montecuccoli, il grande regista Rossellini giro' le scene principali di Roma citta' aperta, tra il 17 e il 18 gennaio 1945, quando Roma era stata appena liberata dall'occupazione nazifascista". Nel '68, don Roberto Sardelli decise di lasciare la parrocchia di San Policarpo, prese un sacco di vestiti e ando' a abitare sotto l'arco di una prostituta. Gli venne pure l'idea di fondare una scuola, la "725", che prendeva il nome dal numero civico della baracca. Nel settembre del 1969, dalla scuola dell'acquedotto Felice, usci' un documento senza precedenti. I ragazzi scrissero una lettera al sindaco sul modello della "Lettera a una professoressa" di don Milani. Si leggeva:

Noi mandiamo questa lettera al sindaco perche' e' il capo della citta'. Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaia di suoi cittadini vivono nei ghetti. Per scriverla ci abbiamo impiegato dieci mesi. Ogni sera a pensierino si aggiungeva pensierino. Nella lettera abbiamo voluto dire una sola idea: la politica deve essere fatta dal popolo.

Don Roberto, contemporaneamente, insieme ad altri dodici preti scrisse la "Lettera dei tredici", in cui veniva denunciata l'amministrazione capitolina, in pratica la Democrazia cristiana al governo della citta'. La chiesa, in effetti, non poteva piu' far finta che i baraccamenti non esistessero. Cosi' si arrivo' al congresso del '74 sui "Mali di Roma", organizzato dal cardinal Poletti, in cui vennero denunciate questi situazioni e la Dc si spacco' letteralmente in due. Proprio quel congresso, in effetti, diede il via alle prime giunte di sinistra della capitale. Dietro don Roberto c'era tutto il movimento romano per la casa, buona parte del Partito comunista, ma soprattutto gli intellettuali. Moravia, Giovanni Berlinguer, lo stesso Pasolini bazzicavano per i baraccamenti dove Roberto dormiva ogni giorno. Ma loro vedevano le cose in maniera diversa dal prete. Nella lettera che i ragazzi della 725 scrissero al sindaco si leggeva: "Venivano soltanto per aiutarci a fare i compiti. Venivano vestiti alla moda. Cercavano di influenzarci. Ragazze truccate in viso e ragazzi che parlavano troppo; credevano di essere rivoluzionari… Parlavano la lingua dei ricchi e non la nostra. Poi si sono stancati e ci hanno lasciato. Hanno fatto bene. Non si sa mai; chi va con lo zoppo impara a zoppicare! Ed erano zoppi". Gli intellettuali partivano dal centro di Roma per venire a vedere le borgate. Magari avevano chiavi di lettura intellettuali piu' valide di quelle di don Roberto, ma non vollero mai approfondire la conoscenza di questa realta'. Fu proprio la lettura paleo-marxista che diedero di questi territori, dice Sardelli, a costituire un ostacolo per lo sviluppo delle borgate. Loro facevano coincidere la poverta' e l'emarginazione con la rivoluzione, ma secondo quale base? Roberto, che portava in giro Moravia e Berlinguer per il Mandrione, sapeva che se non si fosse riusciti a costruire un movimento culturale attorno alle baracche non ci sarebbe mai stato un reale cambiamento. Lui, gia' alla fine del '68, denunciava il fatto che la gente delle baracche si sarebbe omologata, si sarebbe integrata con il sistema. Quando caddero le giunte di sinistra, dopo l'80, le borgate, in effetti, le borgate della capitale iniziarono a votare a destra. Don Roberto ricorda molto bene Pasolini: "Per lui l'emarginazione era una categoria letteraria, lui era un uomo dedito alla ricerca artistica, non gli interessava vedere la realta'. Anche lui, io me lo ricordo in borgata, era prigioniero di uno schema. Sull'omologazione ha scritto bellissimi articoli, ma il problema che affrontavo io era come smontare il processo di omologazione, non solo come analizzarlo".
Fu proprio con le prime giunte di sinistra che Roma inizio' a trasformarsi in una autentica metropoli. In quegli anni, Nicolini diede vita all'estate romana. Ma i borgatari, per don Roberto, che ora attraversavano Roma per godersi gli spettacoli offerti dal Comune, percorrevano la citta', uscendo dalle periferie, piu' per consumarla che per emanciparsi dalla propria appartenenza sociale e culturale: "Prima delle giunte di sinistra alla fine degli anni '70, si mandava Claudio Villa tra i borgatari, e tutti felici. Nicolini, invece, portava Brahms. Ma io dico, come fa a conoscere Brahms uno della borgata? Bisogna prima educarlo a quell'ascolto! Io mi ricordo che un cardinale del 1500 organizzava a piazza Santi Apostoli il carnevale per i romani, e ci andava tutta la periferia. Nicolini e' come quel cardinale, faceva lo stesso. A nessuno importava veramente andare in borgata per insegnare. Noi lo notavamo questo pericolo, noi gli urlavamo che la realta' era diversa, e che se non davamo ai borgatari degli strumenti di lettura, queste persone si sarebbero presto omologate. Del resto anche l'esperienza delle scuole di borgata e' finita, e la sinistra non ha fatto niente per impostare una politica culturale nelle periferie. Possibile che nessun amministratore comunale venga da Torre Angela o Torre Maura? Avevamo centocinquanta operatori nelle scuole di borgata, perche' non hanno chiesto a loro quali erano i problemi invece di chiamare gli intellettuali a fare una riforma della scuola?". Ora nei baraccamenti attorno al quartiere Pigneto e al quartiere Prenestino vivono per lo piu' i migranti che provengono dall'est, dal sudAmerica, dal nordAfrica. E la sinistra, prima o poi, le giunte capitoline dovranno affrontare seriamente il problema della loro integrazione. La giunta Veltroni ha investito molto nella rinascita delle periferie, e ha pubblicizzato ogni manifestazione che operasse per portare la cultura nelle borgate piu' che nel far venire i borgatari al centro. Ma che metropoli sta diventando Roma?

 
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