Trafficanti. E praticanti
Rocco Carbone
Trafficare droga puo' essere un affare di famiglia, piu' spesso di quanto
comunemente si possa credere. Soprattutto quando si tratta di cocaina,
e il traffico avviene da una parte all'altra dell'Atlantico, dall'America
centrale e meridionale alle coste dell'Europa, dove la richiesta e' sempre
alta e i margini di guadagno consistenti. Soprattutto quando la preziosa
sostanza e' affidata a persone, per cosi' dire, insospettabili, che hanno
maggiori possibilita' di superare i controlli all'aeroporto, con il ventre
imbottito di pericolosa merce.
Questa specifica tipologia del corriere della droga ha, in se', alcune
contraddizioni, la prima delle quali e' rappresentata dal contrasto, appunto,
tra colui che la droga la porta materialmente, e l'organizzazione che,
nei paesi di provenienza, e' preposta allo smercio dello stupefacente:
un'organizzazione criminale, con le sue regole e i suoi organigrammi.
Il corriere e', in questa gerarchia, al gradino piu' basso, o meglio,
ne e' escluso. Non ha diritti, ne' tutele, il viaggio che intraprende
e' sempre e del tutto solitario, i rischi molto consistenti, primo fra
tutti la possibilita' che gli ovuli che contengono la droga si aprano
durante il viaggio, provocando la morte del portatore. Verrebbe da chiedersi
perche' una persona comune, incensurata, molto spesso giovane, molto spesso
donna, affronti questi rischi. Per soldi si dira', certo. Ma il gioco
vale la candela? E chi si appresta a fare questo viaggio, quante persone
ha conosciuto che lo hanno intrapreso prima di lui e che non vi hanno
fatto ritorno, se non dopo anni di detenzione in terra straniera?
Parlavo all'inizio di affare di famiglia, e devo venire al punto. La stragrande
maggioranza dei corrieri che sbarcano a Fiumicino con una regolarita'
che non e' quasi mai allentata da controlli e operazioni di polizia, sono
perlopiu' persone che vivono in contesti sociali assi poveri, le cui regole
di convivenza e di relazione sono fondamentalmente arcaiche. Al centro
di queste regole, saldo, inamovibile, sta il modello familiare, che decide
per i suoi singoli componenti e ne indirizza le scelte. Per intenderci:
una ragazza colombiana, mettiamo di un villaggio piu' o meno sperduto,
che da quel villaggio non e' mai uscita e non ha mi preso non dico un
aereo, ma neanche un treno, non intraprenderebbe un'impresa cosi' rischiosa
come portare nel proprio corpo un carico di cocaina a distanza di migliaia
di chilometri senza avere avuto l'assenso della propria famiglia, dei
propri genitori. L'assenso viene dato per motivi di necessita'. Perche'
mancano i soldi per vivere. Perche' con il ricavato di quel viaggio si
puo' sistemare una famiglia intera, comprare una casa e sposarsi, tutti
passi che a quelle latitudini sono estremamente complicati per una gran
parte della popolazione.
E' per questo che non mi stupisce piu' di tanto leggere una notizia che
riguarda un padre e due figli giovani con l'intestino pieno di ovuli,
bloccati all'aeroporto e direttamente condotti in carcere. Ed e' per questo
che non mi stupisce il fatto che gli individui che commettono questo tipo
di reato non percepiscono se stessi come criminali, quanto come persone
costrette per necessita' a commerciare una sostanza che loro stessi mai
userebbero, nei confronti della quale e del suo uso nutrono un atteggiamento
di diffidenza, se non di vera e propria ripugnanza. Perche' questo e'
un altro aspetto, a suo modo paradossale, della questione. Chi cercasse
in un corriere della droga i tratti, diciamo cosi', caratteriali del criminale
incallito rischierebbe di essere deluso, nella maggior parte dei casi.
Lavorando da piu' di cinque anni nel carcere femminile di Rebibbia, ho
avuto modo di incontrare molte donne arrestate a Fiumicino con la droga
in corpo e immediatamente trasferite ("tradotte" e' il termine
tecnico) nella piu' grande delle nostre patrie galere. Rappresentano,
come tipologia di reato, forse la parte piu' consistente dell'intera popolazione
carceraria femminile, e me le ritrovo ogni giorno di fronte, a insegnare
loro l'italiano, a leggere qualche pagina di libro, ad ascoltare le loro
lamentele e i loro problemi (l'udienza del processo che non arriva mai,
l'avvocato d'ufficio che non si occupa di loro, i figli piccoli e lontani).
Conchita, Amilbia, Pilar, Margarita, Ellen, sono i primi nomi che mi vengono
in mente, ma sono solo alcuni tra i tanti. E nel corso degli anni ho potuto
osservarle con una certa attenzione e frequenza, con una regolarita' che
mi ha permesso di conoscerle meglio, scavalcando a poco a poco il luogo
comune di partenza. Una delle cose che, ad esempio, mi colpisce sempre
in loro e' il rapporto che intrattengono con le altre detenute, in particolare
con le tossicodipendenti, anch'esse molto numerose. Si tratta di un rapporto
di assoluta diffidenza, che sfocia nell'aperto disprezzo qualora si verifichi
tra di loro una discussione. Insomma, chi porta la droga disprezza chi
la compra. Perche' questo accada, e' piu' facile immaginare di quanto
si pensi. E' un modo di esorcizzare il reato che si e' commesso e per
il quale si sta scontando una pena. E' come dire: solo le persone deboli
usano la droga. A me non accadrebbe mai. Quindi, e' un problema di chi
la droga la consuma, non di chi la fornisce.
Per quanto possa apparire poco difendibile, e' questa l'argomentazione
piu' diffusa. Un'argomentazione che si diffonde anche in altri ambiti,
con risultati non privi di una certa comicita'. Cosi' che al sottoscritto,
un giorno, in un corridoio, in una pausa tra una lezione e l'altra, mentre
fumava una sigaretta, dopo un improvviso colpo di tosse (fumo troppo),
e' capitato di venire apostrofato da Miriam, colombiana e corriere della
droga, condannata a otto anni di carcere, nel modo seguente: "Fuma,
fuma. Vedrai che ti succede. Io non ho mai fumato. Mio padre non ha mai
fumato. La mia famiglia non ha mai fumato". E' un episodio tra i
tanti, che potrei raccontare, e che confermano ai miei occhi, giorno dopo
giorno, quella strana commistione di arcaico e contemporaneo che queste
donne incarnano, il loro venire da un'origine lontana non solo nello spazio,
e trovarsi proiettate in un mondo che non gli appartiene, che non conoscono
affatto, a partire dalla lingua che si parla e con la quale vengono condannate
a pene piu' o meno lunghe, in genere piu' elevate di quelle riservate
ai nostri connazionali, che nel bene e nel male possono godere di un sostegno,
anch'esso familiare, ma prossimo, parlare nella loro lingua, avere un
avvocato di fiducia, ricevere le visite dei parenti. Al contrario di chi
viene dall'altro continente, e di Roma fa in tempo a conoscere solo due
luoghi: l'aeroporto, e il carcere. La citta' l'attraversano una volta
sola, per compiere il tragitto tra questi due luoghi. Un breve viaggio
su una volante, magari a sirene spiegate, intontite dalla paura e dal
jet-lag, o su un furgone della polizia penitenziaria, con i vetri oscurati,
dal quale e' interdetto guardare verso fuori, anche quando si passa vicino
al Colosseo, o a San Pietro. Dimenticavo, sono tutte cattoliche osservanti
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