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ACCATTONE
cronache romane - 03/04
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Che poi io non ci volevo nemmeno venire a Roma. A piedi. Che poi io credo, dentro di me. Mica sono ateo. Cosi', quel giorno mi ha detto: "Prega! Che pure il Santo Padre e' stato operaio, povero Papa nostro. Sotto i nazisti. Prega, che lui intercede!". Aveva gli occhi rossi, Iride, che nemmeno quando e' morto suo padre e lei aveva quindici anni l'ho mai vista tanto disperata. Nemmeno quando ha venduto la terra che non riuscivamo piu' a coltivare per comprarci la casa vicino alle Acciaierie. "Prega, Mimmo mio, che tu c'hai quasi cinquant'anni e io pochi di meno... e dove andiamo se perdi il posto?". Ha singhiozzato. "Ventisei anni di lavoro... E solo l'operaio sai fare". Parole rimaste appese in aria. Pesanti. Mi sono spostato per non farmele cadere addosso. Cosi', mi sono messo in marcia anch'io. Ventisei anni di lavoro, ha detto Iride. Anzi, quasi ventisette. Sembra fatto apposta, ma non e' mica colpa mia se lavoro alle Acciaierie da ventisei anni e se ci abbiamo messo quasi ventisei ore per fare centootto chilometri a piedi. Dopo un paio d'ore di marcia, ho sentito che nelle scarpe mi si stavano formando delle vesciche, proprio sotto la pianta, cosi' ho cominciato a camminare strano, ad appoggiarmi sul tallone e verso la parte esterna dei piedi. Pirrotta (quello sposato con Clara) ogni tanto mi dava delle manate sulle spalle dall'alto del suo metro e novanta, e mi diceva: "Vedrai che il Papa lo fa il miracolo, Magni' - di cognome faccio Magnini -. Solo lui ci puo' aiutare. Meglio pregare, Magni': male non fara'". Che poi non capivo se intendesse pregare il Papa o direttamente Dio. Iride invece, prima di partire, mi aveva messo al collo la catenina con l'immagine della Madonna. "Prega Mimmo mio, prega", che gia' questa mi pareva una litania: perche' dovevo assordare il Signore anch'io se gia' ci pensava mia moglie? Che poi, in quelle ventisei ore, ce n'ho avuti di pensieri da rincorrere, altro che pregare. Ho pensato alla casa in cui vivevo, ai vent'anni di mutuo (e non trenta, perche' Iride aveva venduto la terra e la casa in cui era nata). Ai figli che non erano mai venuti. Poi, di colpo, mi e' sfuggito un pensiero, si e' slegato, come se fino a quel punto fosse stato imbrigliato chissa' dove, o prigioniero in uno sgabuzzino buio. Mi e' sfuggito come quando ti sfugge un piatto dalle mani e va in frantumi e te ne accorgi solo quando e' troppo tardi, perche' ormai si e' rotto e il danno e' irreparabile. E magari qualche scheggia ti ferisce, anche. Ho ricordato il momento in cui ho saputo che "eravamo a rischio". Ho ricordato il ghiaccio, una sorta di spirale di ghiaccio semovente nello stomaco, e le tempie che pulsavano. Poi il caldo insopportabile sulla testa, tanto che avevo dovuto togliere il casco, lo stesso che indosso ora. I pensieri sfrecciavano nella mente: non ero riuscito a concluderne ne' ad afferrarne uno, almeno per capire a cosa si riferisse. Mi ero premuto le mani sulle tempie. Avevo avuto la sensazione di appiattirmi verso terra: come se ci fosse un masso dentro di me che di colpo si era staccato dalla testa o dal cuore ed era sprofondato giu', trascinandomi con se'. Mi ero detto: "Non sta succedendo a me". Ma poi mi ero guardato intorno, e avevo visto tutti i miei colleghi, poveri cristi con le spalle incurvate sotto il peso della Croce, in marcia verso il Calvario. Strano, non averci piu' pensato finora. Oltretutto, non e' che abbia
mai sofferto di amnesia, io. Chissa' che m'e' preso. Il fatto e' che un
ricordo e' un ricordo solo se ti ricordi di pensarlo. Se non ci pensi,
non e' successo. Magari e' stato per questo, ecco. Comunque, la marcia
mi ha riempito di vesciche ai piedi. E non solo li'. Perche' se penso
alla faccia di Iride quando gliel'ho detto le vesciche mi vengono pure
dentro. Le vesciche mi vengono pure dentro, se penso che di ventisei anni
non rimarra' niente. Che rimane? Il vuoto, uno spazio inutile, uno spazio
che ho occupato io, il mio spazio. Rimangono le parole e le chiacchiere
tra colleghi, le urla e gli sfotto' del lunedi' mattina, a fluttuare -
ma nessuno li vedra' o sentira' mai - ci scommetto. Rimangono gocce di
me, evaporate da me, che s'intrideranno in quelle mura. Ma io non ci saro'
piu'. E allora ho capito, camminando sulle vesciche, che quel freddocaldo
al calor bianco, aggressivo e insultante, era paura. Che sono scritto a matita, nemmeno a penna. E fa male, cari miei, pensare che dopo ventisei anni arriva un tedesco qualsiasi e ti dice (anzi, ti scrive, perche' questa e' gente che alla forma ci tiene, mica e' come me, che invece di rispondere in chiesa grugnisco): "Magni', io sono la gomma da cancellare e tu adesso scompari". "Il dado e' tratto", diceva qualcuno. Un po' ho studiato, qualcosa ricordo, qualcosa so anch'io. Certo, il fatto che non sia dipeso da me buttare questo dado mi fa salire il sangue al cervello: il mio problema e' che vorrei capire. Magari Iride aveva ragione a insistere che contro i ricchi ci serve un miracolo. Percio' eccomi qui. Certo, sarebbe una bella fregatura se pure quei tedeschi c'avessero un santo in paradiso da supplicare quando le cose gli vanno storte (E se poi ce l'hanno per davvero chi sara' il piu' forte, il nostro o il loro?). Pirrotta mi abbraccia. Se Iride avesse visto avrebbe pianto come una
ragazzina. "Magni', le parole del Papa sono pesanti. Il Papa e' dalla
parte nostra. E' stato operaio pure lui, lo sai? Hai sentito quanto ha
parlato? Vedrai che qualcuno ne dovra' tenere conto. Sono con voi, ha
detto. Difendete il vostro lavoro e la sua dignita', ha detto". Tira
su col naso. La "a" accentata gli esce tremolante. "Dai,
che andiamo a dargli il casco, Magni'", mi fa. Io ho mal di testa.
Qualche vescica e' scoppiata, sia fuori che dentro. Pirrotta mi presta
un kleenex, perche' evidentemente le vesciche che avevo dentro mi sono
scoppiate all'altezza degli occhi. Voglio tornare da Iride. "Magni',
ti senti bene?", mi chiede Pirrotta. Dalla finestra una voce malferma
ci benedice in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. "Amen",
rispondo io a voce alta, forte e chiara. |
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