Urne migranti
Carlo Bersani
L'idea non mi dispiace: le attuali leggi italiane richiedono agli immigrati,
perche' ottengano il permesso di soggiorno, di abitare non meno di un
certo numero di metri quadri. Allora, dice Islam Mumenul (ma sto traducendo
sommariamente, se ne tenga conto), visto che cambiare una legge stramba
qui e' piu' complicato che costruire case, il Comune indichi un'area,
cosi' gli stranieri si mettono in cooperativa e si costruiscono appartamenti
abbastanza larghi da permettergli di rispettare la legge.
Volendo dire la mia, urbanisticamente non ci vedo niente di male, in piu',
se proprio gli italiani vogliono tenersi solo per loro il sacrosanto diritto
di abitare in un metro quadro per due, che almeno quest'assurdita' serva
a dare una casa a chi vuole piu' spazio.
Islam Mumenul e' un po' diverso dalla maggior parte dei bengalesi che
ho conosciuto: ha un volto duro e modi decisi, e' vicino alla cinquantina
e veste con una cura che non intendo: la sciarpa candida e il cappotto
avorio che indossa non sono per me, ma per i suoi "fratelli"
ed elettori. Quindi mi astengo dall'interpretarle.
Gli altri, al contrario, hanno una certa dolcezza di lineamenti e, direi,
di modi, nonche' una diffusa e autentica passione per i bambini, specie
se piccolissimi.
Nel mio quartiere ne abitano parecchi. La loro vita comunitaria pare ben
organizzata e ricca di occasioni, cosi' come di piccoli manifesti, volantini,
periodici ciclostilati. Ma non avendo la piu' pallida idea di come funzioni
il bengali, a me restano solo le immagini o, meglio, i ritratti che vi
sono stampati. Per lo piu' santini alquanto cimiteriali, di solito in
bianco e nero, accurati fino allo struggimento come il lavoro d'un vecchio
fotografo di provincia: un uomo sui quaranta, con un sorriso d'occasione
e un berretto troppo piccolo per la sua testa tonda; una matrona cinquantenne,
che sorride all'orizzonte coi suoi spessi occhiali anni Sessanta.
Attori o cantanti, sportivi o politici in visita alle comunita' di emigranti,
scrittori, religiosi o eroi nazionali: potrebbero essere di tutto. Comunque,
mi paiono sempre circondati da un'aura di tenerezza collettiva.
A Londra pare che gli immigrati bengalesi siano raccolti in una stessa
area della citta'. Qui no. Non so cosa sia meglio. So che mi e' capitato,
un pomeriggio che passeggiavo verso la Marranella, di trovarmi in una
stradina di un centinaio di metri e notare un supermercato, un call center,
un videonoleggio e un bar gestiti da bengalesi, piu' un ristorante bengalese
e la sede del Club Euro-Bangladesh, con lo stendardo della pace in bella
vista. Fra tanto bengali, un po' stretti, c'erano una macelleria musulmana
e un negozietto gestito da nigeriani, nonche' un garage di indigeni e
una lavanderia a gettoni neutra sul piano etnico, perche' deserta.
Mumenul ammette che la concentrazione di suoi connazionali qui e' un po'
particolare. Non e' stato un fatto casuale, ma nemmeno pianificato, dice
lui, che del Club Euro-Bangladesh e' l'animatore: semplicemente, e' stata
una sorta di aggregazione spontanea attorno a un primo nucleo commerciale.
Fatto sta che da quando ho notato la stradina, ho cominciato a ronzarci
attorno. Come se i bengalesi di casa mia non mi bastassero, o fossero
troppo discreti, per farmi capire bene qualcosa che, come al solito, non
so cosa sia ma attira la mia attenzione.
Forse e' perche' mi ricordo di quando avevo circa otto anni, e la televisione
fece scorrere, per giorni e giorni, i filmati della terza guerra indo-pakistana.
Erano in bianco e nero, c'erano camionette e camionette nella polvere,
e sopra soldati laceri e secchi ma entusiasti, perche' erano le immagini
di un'avanzata. Strane uniformi, di foggia sommariamente britannica, ma
coi turbanti invece degli elmi. E polvere ovunque: strade sterrate, moschetti,
turbanti e polvere. Mi chiesi come potevano respirare, in mezzo a tanta
polvere.
Domandai a mio padre che stesse succedendo, perche' tanta agitazione,
che fosse questo "Bangladesh" che sul mappamondo che avevamo
in salotto non c'era: "e' una nuova nazione, nasce ora."
Di pakistani ne ho incontrati parecchi in Europa, girando qua e la'. Di
bengalesi molti di meno. Secondo Mumenul, che per questa volta e' la mia
fonte privilegiata, a Roma dovrebbero essere circa dodicimila, di cui
quasi seimila si sono iscritti alle liste elettorali: secondi, dopo i
Filippini.
In Italia ce n'e' un quarantamila, sparsi in quasi ogni grossa citta'
da Milano a Palermo, ma credo che quella di Roma sia la comunita' piu'
numerosa. In Europa sono un po' ovunque, la presenza piu' massiccia pare
che sia in Gran Bretagna: cinquantamila circa, non molti piu' che qui.
Hanno cominciato a venire negli anni Novanta. A Roma almeno, il cinquanta
per cento lavora nella ristorazione, i restanti fanno lavoro autonomo
nel commercio o nei servizi, alcuni, ma pochi, fanno i venditori ambulanti.
Anzi: questo e' il secondo punto che il candidato Mumenul mi invita a
segnalare come parte del suo programma: pare che i vari uffici da cui
bisogna ottenere le varie autorizzazioni e licenze, di norma esigano,
dal richiedente, almeno un anno di soggiorno regolare in Italia. E' su
queste e altre difficolta', che le amministrazioni pongono a chi ha solo
voglia di lavorare - come le interminabili file in Questura, da cominciare
la notte prima che apra l'ufficio - che Mumenul, in caso venga eletto,
ha intenzione di lavorare.
Problemi comuni a tutti gli immigrati. E infatti e' a tutti gli immigrati
che un candidato deve parlare. La campagna elettorale non e' ancora entrata
nel vivo - scrivo a meta' febbraio - e solo adesso i volantini cominciano
a essere scritti in piu' lingue: fino ad ora, l'obiettivo dei candidati
era solo convincere quanti piu' amici e conterranei a iscriversi nelle
liste. Adesso le comunita' devono parlarsi tra di loro, e filippini e
bengalesi, nigeriani e senegalesi, maghrebini e cingalesi saranno un serbatoio
elettorale gli uni per gli altri. Me lo vedo un serbo che vota un albanese,
e viceversa.
Vincera' chi riuscira' a parlare al maggior numero di persone, spezzando
i vincoli comunitari? O chi riuscira' a tenere saldi i suoi compaesani?
Del resto, cosa ci vanno a fare questi "consiglieri aggiunti",
in Campidoglio e nei vari municipi? Pare che nessuno ancora lo sappia
con certezza. E forse io non ho molta voglia di informarmi perche', in
fin dei conti, ho la sensazione che questo sia avvertito, dai candidati,
solo come un inizio. Probabilmente pensano che tenere un milione e mezzo
di persone senza diritto di voto nemmeno alle amministrative, come fossero
fantasmi, sia una politica che non puo' durare (e sono ottimisti); e che
chi pianta un piede fin da subito nella politica delle comunita' immigrate,
potra' gestirla quando sara' diventata una cosa seria (e sono realisti).
Ho in mano il volantino di Mumenul, in italiano, inglese e arabo (quello
in bengali e' a parte, e gira per conto suo). Lo trascrivo quasi integralmente:
"cari fratelli e sorelle stranieri che vivete a Roma, (
) mi
presento come candidato al Consiglio comunale di Roma. Dobbiamo affrontare
molti problemi per poterci integrare con il resto dei cittadini romani.
Il mio impegno sara' continuo e costante se saro' eletto per aiutarvi
a risolvere i nostri problemi. Perche' la mia vittoria e' la nostra vittoria.
Grazie."
A me piace. Mi pare onesto, chiaro e essenziale. Ma non avrebbe senso,
tentare di leggerlo attraverso le "nostre" categorie politiche.
Nessuno puo' prevedere come votera' un giorno questa nuova gente.
Ma e' solo per questo che, a piu' di dieci anni dal loro arrivo, vengono
tenuti ostinatamente fuori dal voto? Come possono davvero fare paura?
Penso all'arcimercato non lontano da casa mia, popolato da una frotta
di bengalesi giovani, laboriosi e ciarlieri. Se sono con mia figlia, che
ha tre anni, mi e' impossibile metterci piede senza che le regalino qualche
assurdo dolciume, che lei addenta fulminea per non darmi il tempo di sequestrarlo.
O alle giovani coppie che passeggiano coi bambini la domenica mattina,
e ostentano mitezza e serenita'.
Bambini e bambine esili e curiosi, che esplorano ogni angolo delle piazze
e lo rinominano, in una lingua, o in un gergo, che non mi sarebbe nemmeno
difficile imparare.
Per il momento capisco appena i loro nomi. Ma ne ho sentito piu' d'uno
chiamato, dalla madre, "Arafat". (A proposito: per gli amici
bengalesi una mozione d'ordine ce l'avrei: va bene che nella loro cultura,
a quanto mi dicono, "le donne stanno a casa e si occupano della famiglia",
ma come si fa a bere una birra, o anche soltanto un te', in un posto dove
non c'e' una ragazza? A dirla tutta, passa un po' la voglia.)
Perche' "Arafat"?
Il nome dovrebbe indicare un ambiente islamico molto laico se non fortemente
occidentalizzato.
Della storia religiosa bengalese, sono riuscito a capire che in Bangladesh
per lo piu' sono sunniti, che c'e' una forte minoranza indu', che c'e'
una certa componente cristiana (immagino di radici anglicane, ma chissa'),
piuttosto rappresentata anche fra gli immigrati in Italia. Tutto qui.
Veramente poco.
Ma tra le tante cose che non so, ce n'e' una che sono contento di non
sapere: non mi pare di aver mai sentito di una tradizione antisemita specificamente
bengalese. A quanto ne so, la tradizione antisemita islamica e' prevalentemente
araba.
E i bambini di nome Arafat? Saranno rimasti al riparo dalla solita confusione
tra stato d'Israele ed ebraismo o, peggio ancora, fra ebrei e sostenitori
dell'attuale governo israeliano? Non c'e' il rischio che proprio li',
in un contesto laico e addirittura "occidentalizzato", sia cresciuto
negli ultimi anni qualcosa di brutto? Qualcosa che magari e' e rimane
estraneo al resto dei musulmani bengalesi ("fondamentalisti"
compresi, se ce ne sono)?
Penso a Pim Fortuyn, a questa strana, tragica figura di attivista gay
fondatore di un movimento di destra xenofoba, perche' terrorizzato dall'idea
che ondate di immigrati musulmani, ma forse genericamente miserabili,
mettessero in discussione i diritti suoi, delle donne e persino delle
precedenti generazioni di immigrati dalle vecchie colonie olandesi. E'
curioso, come fosse disposto a perdere la sua civilta' tutta e subito,
pur di non affrontare un giorno il suo nemico immaginario.
Forse sono gli scherzi che fa la paura: nulla piu' del solito gioco di
ombre e di specchi, ben noto agli occidentali in genere, e agli Italiani
in particolare. Non credo che se ne possa uscire, se non parlando con
le persone.
Per ora, tocca a loro parlarsi, alle comunita' degli immigrati stranieri:
studiarsi, esaminare interessi e compatibilita', trovare se possibile
un linguaggio comune. A questo servono, mi pare, queste strane elezioni.
Cosi' che tutte le comunita' presenti da prima sul territorio cittadino,
abbiano qualche mezzo in piu' per parlare con quelle nuove.
Il resto verra' poi. Tempo fa, me ne tornavo a casa in macchina, guidando
in quella bolgia schifosa che e' la Prenestina all'ora di punta. Davanti
a me c'e' un grosso furgone. Dal finestrino spunta un braccio enorme e
nero come la pece, che solo per quant'e' grosso fa venire la voglia di
dargli di mannaia, cosi', preventivamente.
Sposto gli occhi sulla targa, che e' straniera, quando mi attira una scritta
sul portellone: "I'm covered with the blood of Jesus."
E' ben visibile. Guardo la macchina a fianco per vedere se anche loro
la notano. C'e' una ragazza alla guida, e infatti l'ha notata: la guarda
schifata, come si trattasse d'una bestemmia. Chissa' se ha mai sentito
di Caterina da Siena.
E c'era un vecchio, nel '93, al tempo dello scontro tra Fini e Rutelli.
Era pure lui nero, e girava per i treni con una specie di mandolino. Entrava
negli scompartimenti, cantava una canzoncina in inglese, tendeva la mano
e se ne andava, di solito col resto di niente. Un giorno in uno scompartimento
c'ero anch'io. Eravamo sotto Natale, cosi' comincio' a cantare una curiosa,
nemmeno brutta versione per mandolino e voce di "Jingle Bell".
Noi viaggiatori ci guardammo, basto' qualche colpo di tosse e lui capi'
che non era aria. Ma volle finire la canzone: si sistemo' sul bordo della
porta e, mentre la chiudeva, con un inchino completo' l'ultima strofa:
"
vota Rutelli sindacoo
"
Nessun comitato elettorale l'avra' mai saputo, tantomeno Rutelli. Ma era
un bel modo di fare campagna.
Sono una strana cosa, le elezioni.
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